24 Novembre 2024
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Francesco Ferrucci

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“FRANCESCO FERRUCCI” – CAPITOLO PRIMO / CHAPTER ONE LA CASA DEMOLITA - THE HOUSE IS DEMOLISHED

“È un bel cane” disse l'uomo che era entrato in casa per primo, seguito da altri uomini che portavano picconi a mazze. Io guardai con inquietudine il mio padrone e vidi che era preoccupato come me. Mi preparai a difenderci e non feci caso alla lode che avevo ricevuto. Allora era una lode che ricevevo da tutti, benché preferissi quella che più si addice a un bracco, e cioè che ero forte e bravo nelle imprese di caccia. Ma da qualche tempo il mio padrone, che si chiama Alberigo de' Cecchetti ed era allora giovane e coraggioso, non era più allegro e spensierato come prima e non uscivamo quasi più per la caccia: si parlava d'un francese, principe Filiberto d'Orange, che si avvicinava a Firenze alla testa di un esercito di soldati spagnoli per togliere la libertà alla Repubblica. I fiorentini si preparavano a difendere la loro libertà, e anche nella nostra casa, che rimaneva a mezza costa sul bel colle di San Miniato, sulla riva sinistra dell'Arno, s'adunavano i giovani e parlavano della prossima guerra. “È veramente un bel cane, come si chiama?”, ripeté l'uomo che comandava i portatori di picconi e mazze, forse per guadagnarsi la mia simpatia, mentre continuavo a brontolare e a mostrare i denti, cosa che facevo raramente perché mi piaceva mostrarmi educato e civile. “Si chiama Marco” rispose il mio padrone e aggiunse: “Marco è un nome di libertà” “Voleva dire che dal convento di San Marco in Firenze continuava ad arrivare l'eco della predicazione di Fra Girolamo Savonarola, che durante la sua vita invitava i cittadini a difendere la libertà, che è uno dei più grandi doni di Dio. “Mi piace il suo mantello di pelo raso e lucido, bianco e marrone”. Io avevo smesso di ringhiare perché mi parve che fra il mio padrone e quell'uomo ci fosse qualche intesa, ma non capivo ancora se i nuovi venuti erano amici o nemici. “Mettetevi a sedere” disse messer Alberigo, rivolto all'uomo e agli operai, ma nessuno accettò l'invito. “Sono molto dispiacente”, disse il capo degli operai, “ma abbiamo l'ordine di demolire questa casa: lo comanda messer Michelangelo Buonarroti e lo esige la difesa della Repubblica”. Michelangelo era un cittadino di Firenze famoso in tutto il mondo per le sue sculture e pitture, fra le più belle di tutti i tempi e per le sue architetture, come diceva chi aveva visto le sue chiese e i suoi palazzi, e il disegno della Cupola di San Pietro che doveva sorgere in Roma. Al comando della Repubblica c'era il Gonfaloniere Francesco Carducci e il Consiglio degli Ottanta, e tutti d'accordo chiamarono il grande architetto e gli dissero: “La Repubblica è in pericolo: lascia da parte le statue e le pitture e mettiti a disegnare le fortezze e a farle costruire. Ti nominiamo tra i Nove capi della Milizia e governatore e provveditore generale delle fortificazioni”. Io conoscevo già Michelangelo perché incontrandolo il mio padrone l'additava agli amici: “Quello è il grande Michelangelo, la bella gloria di Firenze nel mondo dopo che Dante e Giotto sono morti”. Era un bell'uomo di cinquantacinque anni, un po'curvo e pensoso, con una bella barba grigia e gli occhi penetranti. Io allora andavo a fargli festa ma appena mi guardava mi sentivo soggiogato dall'intelligenza del suo sguardo e mi allontanavo. Michelangelo, benché già nell'età matura, accettò l'incarico, cessò di scolpire statue e dipingere affreschi dai bei colori sui muri bianchi, e si mise a disegnare e costruire fortezze e tutto il popolo lo riveriva con commozione. Ma io non capivo perché un uomo così grande e generoso avesse dato l'ordine di distruggere la nostra casa. La nostra bella casa che era quasi una villa e non scompariva al paragone delle ville stesse che abbellivano i magnifici colli fiorentini. Guardavo con ansia il mio padrone e aspettavo un suo ordine per dare a quegli uomini la risposta che meritavano, se avevano bugiardamente detto d'esser mandati da quel genio che non poteva fare del male a nessuno. Ma messer Alberigo mi disse con voce ferma: “Dobbiamo andarcene. Questa casa potrebbe diventare utile al nemico come posto d'osservazione. Tutte le case e tutte le ville e tutte le chiese dei dintorni di Firenze che potrebbero essere utili all'invasore verranno demolite. Sarà fatto il vuoto intorno alla città e alle fortificazioni perché la difesa sia più agevole. Aveva il pianto in gola, ma le labbra non davano un tremito. Fuori erano i carri con altri uomini per il trasporto della mobilia: incominciò subito lo sgombero e già gli uomini del piccone davano i primi colpi. II sole stava per tramontare e si vide l'ombra lunga d'un uomo che scendeva da San Miniato. Al suo sopraggiungere tutti lo salutarono con riverenza ed egli si fermò. Domandò del padrone di casa, mise una mano sulla spalla di messer Alberigo e disse: “Il prezzo che pagate alla difesa di Firenze è grande, ma è ancora poco in confronto a chi dà la vita: vi auguro, se occorrerà, di non rifiutare nemmeno quest'offerta. Fece una carezza anche a me e s'allontanò curvo e pensoso. Egli aveva pagato rinunciando alla sua arte, che è ben più di una casa, e offriva la vita dopo avere dato alla Repubblica il denaro che possedeva: era Michelangelo Buonarroti.

THE HOUSE IS DEMOLISHED - “It's a nice dog” said the man who entered the house first, followed by others, carrying picks and maces. I anxiously looked at my master and I saw that he was as worried as I was. I got ready for defence and didn't pay attention to the praise that I was given. That was a praise that everyone gave me, although I would have preferred to be praised for the reason that best suits a hound: for the fact that I was a strong, good hunter. My master, whose name was Alberigo de' Cecchetti, young and brave, back then, hadn't been cheerful and carefree, lately, like he used to be, and we seldom went out hunting. People were talking about a French, Prince Philibert D'Orange, leader of an army of Spanish soldiers, who was moving closer to Florence to take freedom away from the Repubblic. Florentines were getting ready to protect their freedom; even at our home, situated half way from the beautiful hill of San Miniato on the left bank of the Arno river, young men were gathering and talking about the incoming of the war. “It's really a beautiful dog, what's its name?” the man who supervised the ones with the picks and maces, repeated, maybe to gain my simpathy, because I kept on growling and showing my teeth, something that I rarely did, because I liked to show that I was civil and well mannered. "His name is Marco" replied my master and added: "Marco is a name of freedom". What he meant was, that it had the name of the convent of San Marco in Florence, where the echoes of the preaching of Fra' Girolamo Savonarola had been coming from. During his life Fra' Girolamo Savonarola invited citizens to fight for freedom, which is one of God's greatest gifts. “I like its white and brown, short-haired shiny coat”. I had stopped growling because I gathered that there was a sort of connection between my master and that man, but I couldn't understand if the ones who arrived last were friends or enemies. “Have a sit” said messer Alberigo turning to the man and his workers, but no one accepted the invitation. “I'm very sorry”, said the headman, “But we have received orders to tear this house down: messer Michelangelo Buonarroti demands it and the Defence of the Republic claims it. Michelangelo was a citizen of Florence, famous all over the world for his sculptures and his paintings, some of the most beautiful of all times; and for his architecture, as claimed, who had seen his churches, his buildings, and his plan of Saint Peter's Cathedral, that was supposed to be built in Rome. Gonfalonier Francesco Carducci and the “Consiglio degli Ottanta”(the Council of the Eighty) were in charge of the Republic, they all had agreed to call the great architect and had said to him: “The Republic is in danger: leave statues and paintings aside and start drawing projects of fortresses and have them built. We nomitate you as member of the “Nove”(The Nine): the commanders of the Militia, and General Commissioner in charge of the fortifications.” I already knew Michelangelo, because when we had met him my master had pointed him out at his friends: “That is the great Michelangelo, the beautiful glory of Florence around the world, after Dante and Giotto had died”. He was a fifty-five year old handsome man, a bit hunched, a thoughtfull look, with a nice grey beard and piercing eyes. Back then, I used to go to wag my tail around him, but as he looked at me I felt subjugated by his intelligence, so I would leave. Although his mature age, Michelangelo accepted the job, he gave up sculpting statues and painting those beautiful colourful frescoes on white walls, and began to design and build fortresses; and all the population honoured him with emotion. Yet, I didn't understand why such a great, generous man could have given orders to destroy our house: our beautiful house, which was almost a villa, that didn't have anything less, compared to the others, that embellished those magnificent hills of Florence. I anxiously looked at my master and I waited for him to give me permission to show those men what they deserved if they had been lying about that genius, who couldn't hurt anyone. Messer Alberigo, instead, cryed out: “We have to leave. This house could turn out to be useful to the enemies as an observation point. All the houses, all the villas and all the churches in the surroundings of Florence, that could be useful to the invaders will be torn down. We will leave a gap around the city and around the fortresses to ease up our defence”. He had a lump in his throat, but his lips remained firm. Movers were waiting outside with their wagons: as they began packing, the men with the picks had already started to work. The sun was going down and we saw the long shadow of a man returning from San Miniato. As he came closer everyone bowed at him and he stopped. He asked to see the owner of the house, he put his hand on messer Alberigo's shoulder and said: “ You are paying dearly to defend Florence, but not enough if compared to those who give their life: I wish for you to be able to take this chance, in the future”. He pat me, then walked away bent and pensive. He had paid the price by giving up his art, much more worth than a house, and was offering his life after he had donated all his money to the Republic: his name was Michelangelo Buonarroti.

L' EROE DI GAVINANA – THE GAVINANA HERO – CAPITOLO PRIMO / CHAPTER ONE
UN RAGAZZO E UN CAVALLO - A BOY AND A HORSE Marco correva sotto la pioggia. Era un bel ragazzo di quindici anni, coi riccioli biondi che gli scendevano sulle spalle. La mamma veneziana gli aveva regalato gli occhi celesti e il babbo fiorentino l'agilità della mente e delle membra. Venezia e Firenze, le due fiere Repubbliche erano alleate e si aiutavano a progredire nei commerci e nelle arti. Marco le amava e avrebbe voluto vederle unite, come sua madre e suo padre, ma ora correva sotto la spinta d'un amore più prossimo e palpitante: correva recando sotto il braccio una soffice coperta di lana. Scese il greto dell'Arno e si immerse nell'acqua fino alle ginocchia. Eravamo ai primi di settembre dell'anno 1529 e quella prima pioggia autunnale non poteva ancora impedire il passaggio dell'Arno a guado. Risalì la sponda settentrionale e sempre correndo s'immerse nella campagna, prese il dorso d'una collina e raggiunse trafelato uno stazzo dove un giovane e splendido cavallo arabo pascolava. “Kherim!” La bella bestia alzò la testa e nitrì. La pioggia rendeva lucido il manto nero, che terminava con la balzana bianca alle zampe, da sotto il ginocchio allo zoccolo. Gli occhi scuri e sapienti esprimevano una gioia stupita, come dicessero: “Perché sei venuto, buon amico?”. Marco gli distese la coperta sul dorso, prese la cavezza e insieme ridiscesero la collina, il cavallo difeso dalla pioggia e il ragazzo a testa nuda, senza curarsi dei rivoli d'acqua che gli appannavano la vista. Il piovasco, che era venuto giù da Vallombrosa, proseguì a ovest, verso Firenze, e a Rosano tornò presto a splendere il sole, che era ancora alto sui colli dell'Incontro e di San Miniato. Marco aveva condotto Kherim al riparo sotto la loggia del castello e andò a scioglierlo per ripetere il giuoco d'ogni sera. Senza curarsi dell'erba bagnata, si distese sul piazzale e il cavallo, con dolci musate, lo faceva ruzzolare sul terreno, finché non riuscì a scoprire una borsa che il ragazzo nascondeva nelle vesti: scoperta la borsa, Kherim s'arrestò ed emise un leggero nitrito, che indicava soddisfazione e attesa. Marco aprì la borsa, piena di zucchero. Aveva avuto Kherim in dono dal babbo, che l'aveva comperato in un villaggio arabo, ai piedi del Monte Kherim e l'aveva battezzato col nome di quella cima, la più alta della regione. Il babbo apparteneva alla Corporazione fiorentina dell'Arte della Lana e andava in oriente con le veloci flottiglie Veneziane a scambiar le ricchezze favolose di quei paesi con la ricchezza dell'ingegno italiano. Da uno di quei viaggi era tornato con Kherim, uno dei più begli esemplari dei cavalli del deserto, che sono i più belli del mondo, e Marco ne aveva fatto l'amico inseparabile. Kherim divorò lo zucchero con grande ghiottoneria e, come se l'alimento gli avesse messo nelle vene un irresistibile bisogno di moto, cominciò a nitrire e scalpitare intorno al ragazzo. Marco guardò il cielo: il giorno moriva dolcemente e restava il tempo per una cavalcata sulla sponda erbosa dell'Arno, risalendone il corso verso Figline. Con un salto fu in groppa al cavallo, che si lanciò al trotto con un nitrito di gioia. I luoghi incantevoli davano un gioioso impulso alla corsa, ma i lavoratori che ritornavano dai campi coi loro arnesi avevano quella sera, un aspetto grave, che la sola stanchezza della fatica non poteva giustificare. Marco non se ne sarebbe accorto se un vecchio terrazzano non gli avesse fatto cenno di fermarsi: “Torna a casa, Marco. Non ci sono buone notizie da Figline e potresti fare qualche brutto incontro”. Marco strinse le labbra e, piegando la testa, piegò la guida a Kherim: ripresero, con la tristezza che era seguita alla gioia come la notte seguiva alla luce del giorno, la via di Rosano



A BOY AND A HORSE Marco was running in the rain. He was a handsome fifteen-year-old boy, with blond curly hair falling over his shoulders. His Venetian mother had given him blue eyes while he had inherited the confidence of mind and agility from his Florentine father.Venice and Florence, the two proud Republics were allied and helped each other to progress in trades and arts. Marco loved them both and he wished to see them united like his mother and father. But he was running after a sudden throbbing love, now: he was running, carrying a soft, wool blanket under his arm. He went down the shore of the Arno river and jumped into the water up to his knees. It was the beginning of September 1529 and those autumn light showers couldn't hinder the crossing of the Arno river, yet. He went up the north shore and ran into the country, then down a hill, and panting, he reached the pen where a young and beautiful Arabian horse was grazing. "Κherim!" The beautiful animal looked up and neighed. The rain was making its coat shine: it was black all over, but white from the knees to the hooves. Its dark and wise eyes were expressing a surprised joy, as if they were asking: "Why are you here, my dearest friend?". Marco covered its back with the blanket, grabbed the halter and they went down the hill together, the horse protected by the rain and the boy bare headed, careless of the water trickles that blurred his vision. The storm, that had come from Vallombrosa, was heading west to Florence; in Rosano the sun was shining again, still high over the hills of Incontro and St. Miηiato. Marco had led Κherim under the porch of the castle to shelter from the rain, and now he was letting it loose to repeat the game of every night. Careless of the wet grass, he lay down on the ground while the horse hit him sweetly with its muzzle making him roll forward until it found the bag that Marco was hiding under his clothes: once Kherim had found the bag it stopped and gently neighed, showing that it was waiting with satisfaction. Marco opened the bag, full of sugar. He had received Kherim as a gift from his father, who had bought it in an Arabian village at the foot of Mount Κherim and had given the horse the name of that mountain: the highest of that region. Marco's father belonged to the Florentine Guild of the Wool Trades and travelled east on Venetian fast ships to trade the fabulous wealth of those countries with the treasures of Italian ingenuity. He had come back from one of those travels with Kherim: one of the best breed of desert horses, the most beautiful in the world, that soon became Marco's inseparable friend. Kherim devoured the sugar with much greed, and as the food had put in its veins an irresistible urge of moving, it started neighing and pawing around the boy. Μarcο looked at the sky: the day was slowly ending and there was just the time for a ride along the grassy Arno river bank, following the flow to Figline.With a jump, he was on the back of the horse, that suddenly began to trot, neighing with joy. The enchanting surroundings suggested a joyful impulse of riding; but the workers who were coming back from their fields with their tools, had a serious look that evening, that couldn't be justified by the weariness of the labour. Marco would have never realized that, if an old farmer hadn't waved at him to stop: "Go back home, Marco. We don't have good news from Figline and you might have bad encounters on the way ". Marco pursed his lips and, turning his head, he changed the leading direction to Kherim: they proceeded on the way to Rosano with sadness, that soon was followed by joy, like daylight is followed by night.





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